Ero la prima di tre sorelle: abitavamo in un piccolo paese vicino a Lima, che è la capitale del Perù. Mio padre faceva l’agricoltore, avevamo quattro braccia di campo una casetta piccola, ma per noi bastava. Mia madre era un angelo: aveva carezze per tutti. Mi ricordo che fino ai quattordici anni mi
pettinava lei i capelli dolcemente e prima di andare a dormire mi dava un abbraccio forte ma anche leggero, come a dire sono qui quando ti sveglierai: non avere paura. Da lei ho imparato che il corpo e l’anima sono la stessa cosa e che bisogna avere una buona cura di essi come se fossero un tutt’uno. Lei mi guardava e mi sorrideva e io così faccio coi miei pazienti che si preparano a morire. Li guardo e li accarezzo con gli occhi ma anche con le dita. Essi hanno bisogno più dei bambini di essere accarezzati, perché il loro corpo è spaventato, pauroso e pieno di dolore. Hanno bisogno di protezione e calore come i passerotti, caduti giù dal nido.
Quando divenni più grande e mia madre morì di colpo, come un albero abbattuto mi son detta “coraggio, è tempo di far vivere gli insegnamenti di mamma”. E così mi sono messa a lavare, cucinare, fare piccoli lavori per una famigliola affamata. Papà doveva di lì a poco imboccare la stessa strada che lo divideva da sua moglie: non poteva vivere senza di lei e dunque se ne andò presto via…. per sempre. Così mi trovai a venticinque anni, nel pieno della vita senza genitori e con le sorelle più piccole.
Incontrai allora Ramon, bello come il suo nome che praticamente sposò me e le mie sorelle, nel senso che le adottò tutte e tre come un buon padre. Non fui mai gelosa di esse, né nella nostra famiglia c’era spazio per invidia o cose di questo genere. Il dolore spesso moltiplica la cattiveria, da noi l’aveva azzerata. Siamo cresciute con un forte sentimento solidaristico. Come rami di uno stesso albero. Una per tutte e tutte per una. Infatti quando mi nacque la mia prima figlia Laura, le mie sorelle vigilavano su di lei come tanti angioletti e cosi io potei andare ad iscrivermi alla scuola delle infermiere di Lima. Ramon faceva il maestro elementare e di soldi ne giravano pochi per casa. Io del resto avevo fatte mie le cure di mia madre, e il mio lavoro in fondo consisteva in quello di dare gioia e consolazione a chi soffriva. Per me era un piacere vedere che le persone sorridevano al mio sorriso e non avevano paura quando le fasciavo o le medicavo. Mia madre spesso durante la mia infanzia mi prendeva per mano, come a dirmi, ecco sono qua, non sentirti sola. Io così tacevo con le persone sofferenti che oltre alle medicine avevano bisogno di questo farmaco per l’anima che erano appunto le mie carezze e i miei sorrisi di incoraggiamento.
Avrei voluto tanto studiare, ma mi sembrava che i miei pazienti, ognuno di loro potesse essere fonte di saggezza per me se solo riuscivo ad ascoltare la loro voce “dentro”. In fondo io devo tutto a loro, perché ascoltando i loro racconti, le loro sofferenze, posso dire di essere diventata saggia, come il viandante che raccoglie i pezzetti di vetro per le strade e poi ne fa venire fuori un mosaico. Dopo la prima bimba aspettai un secondogenito che poi era una femmina che chiamai Tania Yurid, mio marito fu contento lo stesso, anche se aspettava il maschio. Avevamo fatto una famigliola di sole femmine eppure mio marito è riuscito a sopravvivere ugualmente! La ricetta? Molta dolcezza, molte carezze, anche quelle dell’animo che non si vedono, tipo non alzare la voce troppo, non invadere troppo con i propri problemi personali, insomma tutti i giorni coltivare il comune campo dell’affettività domestica, fatto di piccole cose, piccole premure, ma costanti e non fatte pesare. Passano gli anni vicino a Lima, io divento caposala del mio ospedale pediatrico, ma mi occupavo nelle ore libere anche di anziani. Ma cosa succede al mio bel Ramon, che perde improvvisamente in un mese più di dieci chili? Cosa succede a questo mio piccolo grande padre? La vista gli si annebbia, inizia a cadere qua e là. La diagnosi mi colpisce al cuore come una lama. Ramon ha una forma fulminea di leucemia, che l’angelo se lo è portato via in due mesi. Laura e Tania Yurid hanno rispettivamente venti e ventidue anni. Sono entrambe iscritte a ingegneria agronomica, perché questo bel paese di Perù possa avere un destino migliore. Sono brave e diligenti. Dopo la morte del padre decisero di andare a lavorare. Ma io mi opposi fermamente. Ho avuto una madre come un angelo? Bene sarò anch’io il vostro buon angelo condottiero. Feci le mie carte e i miei bagagli.
Ho scelto l’Italia perché sono gente per bene, gentili e accoglienti. Sapevo che la lingua spagnola si può capire quasi come se fosse l’italiano. Mi sono iscritta in un’agenzia di collocamento per infermiere diplomate. Tanti hanno bisogno di me qui, di più che in Perù. Per questo sono in Italia da due anni, per permettere alle mie figlie di diventare ingegneri e fare la loro strada così come io ho potuto fare la mia. Mi manca il mio paese? No, il mio paese è dove la gente mi cerca per avere consolazione. Io ne ho avuta tanta. E ora voglio come ricambiare. Le mie figlie sono fiere di me. Io parlo loro una volta al mese, al telefono. Pochi minuti, perché di più non si può, costa troppo. Sorride Cristina Escobar… nel suo sorriso troneggia il sole di un cielo fatto più azzurro dalla sua dolce calma di madonna tardo-gotica.
Oggi Magazine, 21 maggio 2000