Ha 44 anni, fa l’agricoltore. Suo figlio ha quattro anni, ma da due vive con la madre (e la nonna) nella vicina cascina. Quando la moglie lo abbandonò, scomparve nel nulla per venti giorni. Poi una telefonata: «Se vuoi vedere tuo figlio devi firmare “la consensuale”». Roba da mafia, Alberto arriva dall’avvocato, legge le clausole: può vedere suo figlio due volte la settimana per un totale di sei ore che moltiplicate per quattro settimane danno come una giornata in un mese. Si rivolge all’avvocato: ma è possibile? L’avvocato lo avverte che è già tanto quel poco, dal momento che il bimbo ha solo due anni Se poi vuoi vedere il figlio, tanto vale che firmi. Alberto così firma la sua condanna. Ora che il bambino ha quattro anni sta lottando per la revoca delle norme dell’affido: vuole suo figlio almeno un week-end alternato come tutti gli altri o quasi padri. Mi chiede: come posso fare? Questo clima di terrorismo psicologico fa in modo che questi uomini non ne vogliano più sapere delle donne. Preferiscono la solitudine totale. Diventano misogini. Sarà possibile costituire un territorio interdisciplinare che abbracci diritto e tutela psicologica sia dei minori sia degli adulti violentati da queste sentenze inique e comunque limitanti? Dove può arrivare la ragione dell’uno senza escludere quella dell’altro, senza trascurare le emozioni primordiali legate ai figli?

«È altamente auspicabile che si introduca l’istituto dell’affido congiunto – mi dice Annalisa Crìppa De Sanna, avvocato matrimonialista di Milano -perdite buoni motivi. Il primo è che non si rende latitante uno dei due partner, lo si obbliga letteralmente a prendersi cura della prole. Non si mettono i genitori in una situazione di disputa, ma in un’ottica di collaborazione e di mutuo soccorso. Darebbe la possibilità al minore di non sentire così disgregata la sua famiglia, perché comunque di lui si occupano entrambi i genitori. A questo punto, vedrei soltanto una buona persona di riferimento per entrambi i genitori che siano aiutati a prendere decisioni giuste nell’interesse del minore, e non a esclusivo vantaggio di uno dei due ex partner».

«Spesso una Ctu, una Consulenza tecnica di ufficio – spiega l’avvocato Benedetta Barbieri di Milano – è una pezza che si mette agli orrori iniziali dei giudici. Meglio che si litighi prima sulle modalità d’affido, che si negozi un punto d’incontro e poi non si debba rivedere le cose in continuazione. Il rischio è che il minore che subisce una guerra fredda o calda prima della separazione dei genitori veda poi accanirsi questi ultimi in una lotta di potere per il suo possesso che lungi dal separarli li lega ancora di più. In una guerra infinita. Questo fa veramente male al minore, essere in mezzo alla guerra, l’essere strumento di tortura nelle mani di uno contro l’altro. Lo sottopone a uno stress che lo porta a un’adolescenza patologica (fughe, ruberie, cattivo andamento scolastico, mancanza totale di concentrazione, droga). Il problema è il “come ci si separa”! E la Chiesa? «È incredibile quanta immaturità psicologica e quanto egoismo siano alla base dei fallimenti dei matrimoni. Padri troppo spesso figli per essere padri, madri eccessivamente attaccate alla famiglia d’origine, mancanza totale di una cultura dei sentimenti e dell’a¬more – rileva monsignor Rigon, responsabile del tribunale ecclesiastico della regione Liguria – Manca una preparazione remota e prossima di una progettualità coniugale. Non si sa cosa significhi amare. C’è troppo consumismo sia affettivo sia sessuale. I valori sono basati più sul materialismo che su una visione spirituale della vita». Ma perché i padri vengono così spesso estromessi dal gioco familiare? Forse perché tutti, giudici, assistenti sociali, psicologi, sono figli di mamma? Lo chiedo al comandante del IV corpo d’Armata Luigi Manfredi, psicologo militare, «il genitore genetico (la madre) diventa anche il genitore culturale, escludendo di fatto il codice paterno. Per questo mi sembra che quasi sempre si affidi il minore alle madri. Si confonde senza volerlo la spinta genetica con quella etica: il Vorbid (il punto di riferimento positivo) è sempre la madre, in questa cultura. Come possono i minori una volta diventati adulti affrontare responsabilità e rischi sia di ruolo (professionale) sia di famiglia se hanno potuto fruire di una sola voce, quella materna?».

L’Indipendente, 19 ottobre 1994

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