I genitori erano brava gente,venuta dal sud. I Coltivavano la terra dalle parti di Sanremo negli anni 50. Quella era una buona fortuna, di avere un pezzo di terra due stracci e un badile. lì resto era tutto buona volontà. Quando nacque in pieno-boom economico Sonia si trovò già davanti a sé due fratelli più grandicelli che erano stati messi a lavorare anche loro.
Dei nonni non ricorda nulla perché abitavano al sud e non c’erano abbastanza soldi per andare a trovarli allora.
Dell’infanzia ricorda il trillo delle cicale e il rumore dei venti che quando arrivavano provocavano ansia in casa, perché i fiori, che allora erano alloggiati in piccole ceste e non in grandi vivai potevano morire.
Educata più al soffiare dei venti che al sentire i propri bisogni, Sonia ricorda di aver avuto un paio di litigate con la madre in cui quest’ultima le disse che era meglio che non fosse mai nata, la prima volta a sei anni e che era meglio che morisse, la seconda volta verso i dodici anni.
Da allora sviluppò una gran voglia di andarsene anche lei dove non ci fosse più paura di vento e urlate materne, ma poesia, forse, e anche qualche po’ di calore.
S’inventò un personaggio a cui parlare in inglese per avere compagnia ed imparare la lingua.
A dodici anni aveva capito che era meglio globalizzare che socializzare.
Da quando si era messa a parlare da sola e in inglese riferendosi ad una terza persona femminile singolare era stata presa da un’insolita calma anche da una nuova forma di fierezza e coraggio.In fondo solo lei in prima media sapeva qualche parola di inglese come se fosse atterrata da qualche parte dei mondo più nobile del modesto sud.
Per di più grazie a questa invenzione fantastica non solo non si sentiva più soia ,ma addirittura non veniva scambiata per quella lì… figlia di meridionali.

Ma il problema qual era? Più Sonia si isolava a parlare in inglese al suo personaggio fantastico, chiamato Lisy (da Elisabeth) e più le cose andavano male. Il padre grugniva qualche parola con lei, come se fosse non un essere umano, ma una bestia, sua madre si dimenticava di lei, tanto da non prepararle più nemmeno da mangiare.
Tanto meglio si disse Sonia che era arrivata ad avere sedici anni. Io mangio da sola e per di più leggo scrivo, compongo, ritraggo, rifuggo e mi rifugio, in un mondo tutto mio.
Peggio per loro. Io andrò avanti e loro rimarranno indietro, legati alle radici dei ìoro fiori. “Io invece risplenderò come una stella.”
In effetti a diciassette anni prende la maturità scientifica e subito dopo parte per Londra, senza spago perché la valigia aveva un bel manico, ma con pochissimi quattrini, perché la scommessa era tanto fra dieci giorni tornerai.
Questo succedeva nel 1996, anno in cui Sonia trova da stare in famiglia a Londra, lavora la mattina e il pomeriggio si iscrive alla scuola d’arte, peccato che continui a parlare a Lisy e a gesticolare come una napoletana in pieno giorno alla High School of Arts.
Per questo viene segnalata ai servizi sociosanitari del quartiere di Londra cui apparteneva la scuola.
E un giorno viene chiamata ad avere un colloquio con lo psichiatra. Sonia, per non fare brutta figura e non essere allontanata dalla scuola, dice che Lisy è veramente una persona che frequenta la scuola e che anzi è venuta dall’Italia apposta per questo.
E non c’è niente da fare per dissuaderla da simile idea: Lisy è la migliore amica che ha, perché non dovrebbe parlarle? Le viene somministrata una dose di Serenase da cavallo (un potente sedativo), ma inutile perché Sonia pensa che se dice la verità fa una gran brutta figura e preferisce il Serenase alla gran brutta figura o comunque al dover dire la verità e cioè che da quando aveva dodici anni si è dovuta inventare una sorella per non morire di disamore e di disperazione.
Adesso che ci era davvero affezionata aveva paura di lasciarla, quasi come un piccolo feticcio, una zampa di lepre o, che so io, una copertina mangiucchiata di Linus. La stessa cosa, ma avrebbero capito.
Fatto sta che Sonia, che esplode a razzo come artista (piena di righe e dì rughe la sua anima di piccola meridionale dei nord Italia), ha uno psichiatra che le versa nelle orecchie parole e Serenase, nulla da paragonare al clima emotivo familiare in cui sarebbe stato meglio che morisse o che non fosse mai nata, ma molto lontano da quello che Sonia pensava di avere partendosene dalla patria.
Per di più col fatto che parlava Sempre a Lisy, non si era fatta neppure uno straccio di amica e ormai era costretta a guardarsi da tutti con grave sospetto di cospirazione.
Insomma Sonia pensava che se si fosse fermata a parlare con la sua amica di quando era piccola, forse l’avrebbero portata via e l’avrebbero rispedita a casa.
Risultato. Sonia si mise a parlare con Lisy solo di notte a voce alta per chiamarla dal sonno: a farle compagnia di giorno cercava di socializzare come le avevano prescritto lo psichiatra di Nottingham Hill e anche la famiglia che la ospitava, stufa di sentirla parlare di notte, insofferente di questa novità.
Ma Sonia non riusciva a pensare di far fuori la sua migliore amica, quella che sapeva tutto di lei, la sua prima o seconda madre e anche zia nonché sorella e fratello. Anzi la sua gemella nonché ìa voce della sua coscienza. Ormai non riusciva a pensare dove incominciava una e dove finiva, l’altra.
Per questo la trovarono fredda e attorcigliata nel suo cuscino con un sorriso di calma e un biglietto vicino. “Stai tranquilla Lisy, sono qui io”.
Sonia così era tornata al suo paese dei fiori, come una farfalla volata a cui avevano tolto le ali.
Lo psichiatra a cui raccontarono l’avvenuto decesso, prese nota di un drop out professionale e andò da un supervisor per sapere dove aveva sbagliato. La famiglia le fece dei funerali in sordina, come Sonia avrebbe voluto.
Lei se ne era tornata nel paese degli innominati benvolentieri. Piuttosto che rimorchiare una sensazione d’intollerabile malessere dovuto al fatto di non sentirsi voluta, aveva preferito riposarsi in un paese in cui non c’è senso di colpa per l’esser nati e neppure aver voluto morire.

America Oggi, 7 novembre 1999

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